“Il mondo della moda è diventato un business che non guarda in faccia a nessuno, soprattutto che non guarda le mani di nessuno”. E il problema non è solo il fast fashion. Ecco cosa accade nel settore del lusso. Intervista a Orsola de Castro, fondatrice Fashion Revolution.
Una borsa Hermès, Louis Vuitton o Prada può arrivare a costare anche centinaia di migliaia di euro, un prezzo che viene “giustificato” per la qualità dei materiali impiegati e per la lavorazione artigianale che c’è dietro. Ma è davvero così? In queste settimane sono diventati virali su TikTok dei video di creatori cinesi che si dichiarano produttori OEM (Original Equipment Manufacturer), ovvero fornitori di articoli originali, e che sostengono di essere loro i veri artefici delle borse di lusso
Nei video si vedono borse, scarpe e capi d’abbigliamento visivamente identici a quelli dei marchi di fascia alta, ma venduti direttamente da fornitori cinesi a una frazione del prezzo. Il più noto tra questi è un utente chiamato Wang Seng, che in un video con oltre sei milioni di visualizzazioni ha affermato: “Più del 90% del prezzo è per il logo ma se non ti interessa il logo e vuoi la stessa qualità, lo stesso materiale, puoi semplicemente comprarlo da no“. Una borsa simile a una Birkin, per esempio, è proposta a 1.400 dollari, contro i 34.000 del modello originale.
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Secondo Seng, i marchi europei riportano le borse quasi finite nei loro Paesi per riconfezionarle e applicare il logo, così da poterle etichettare come “made in Italy” o “made in France”. Il trend è esploso con l’hashtag #chinesemanufacturer, sotto il quale circolano decine di migliaia di video.
Cosa sta succedendo al settore della moda di lusso? Cosa c’è di vero in tutto questo? Lo abbiamo chiesto a Orsola de Castro, una delle fondatrici di Fashion Revolution.
“Tutta l’industria si è spostata su altri lidi, ha cominiciato a produrre al di fuori della nostra struttura che, in un certo senso, proteggeva sia risorse che lavoratori. Quando il lusso si è accorto di che cosa era possibile, ha sfruttato la possibilità, sono stati i primi ad andare anche loro in nuovi territori a sfruttare risorse e lavoratori per proporci un prodotto appena meno caro del lusso, ma con dei margini sconfinati. Questo è il lusso che conosciamo oggi: margini sconfinati per un prodotto scadente. – afferma a TeleAmbiente Orsola de Castro – Il mondo della moda è diventato un business che non guarda in faccia a nessuno, un business che non guarda le mani di nessuno, non guarda chi lo fa e chi lo compra”. E aggiunge: “Dopo aver detto questo veramente per decenni, lo sto vedendo salire a galla in questi ultimi giorni. Ma anche mesi fa, quando determinati fashion brands sono stati scoperti che producevano in sweatshop cinesi nel Nord d’Italia. E adesso stiamo vedendo la vendetta degli operatori in Cina, che ci stanno raccontando la storia cosi com’è. Noi lo sappiamo, lo abbiamo sempre saputo. Evviva che si sia scoperto“.
Le aziende (non solo di fast fashion) distruggono gli abiti invenduti?
In un magazine di TeleAmbiente vi abbiamo parlato della filiera produttiva di brand di moda appartenenti al settore del lusso, in particolare relativamente alla gestione degli abiti invenduti.
Non tutto quello che viene poi prodotto viene anche venduto. Ogni anno 40 miliardi di vestiti e scarpe vengono distrutti senza essere mai stati indossati. La sovrapproduzione porta le aziende a distruggere i capi invenduti piuttosto che applicare degli sconti o riutilizzarli.
Ma perché questa pratica di distruggere l’invenduto viene fatta dalle aziende? E attenzione, non parliamo solo di brand di fast fashion, la moda usa e getta a basso costo, ma anche di noti brand dell’industria del lusso.
Tra le aziende di lusso accusate di bruciare prodotti nuovi e senza difetti, una fece particolarmente discutere. Parliamo del marchio britannico di lusso Burberry, che nel 2017 bruciò merci invendute per un valore di 28,6 milioni di sterline. La notizia provocò molta indignazione, ma non stupì molto chi lavorava nel mondo della moda.
Il nuovo regolamento Ecodesign introduce anche il divieto diretto di distruzione di prodotti tessili e calzature invendute. Una necessità che parte dal presupposto che ci sono aziende in Italia e in Europa che, piuttosto che scontare i prodotti non venduti, preferiscono distruggerli e poi riciclarli? Tra le novità del regolamento entro il 2030 ogni prodotto tessile venduto nei suoi confini dovrà avere un passaporto digitale.
Questo fermerà le pratiche scorrette delle aziende? Lo abbiamo chiesto, nel Magazine dedicato al latro oscuro delle sneakers, alla deputata PD Elenora EVi.