Secondo il rapporto RepRisk, nel settore del lusso il 17% degli incidenti riguarda il lavoro forzato e la violazioni dei diritti umani, percentuale più alta anche rispetto al settore del fast fashion.
L’industria della moda, in particolare il fast fashion, è riconosciuta come uno dei settori più inquinanti a livello globale. Ma non è solo l’aspetto ambientale a preoccupare o la moda low cost. Le cattive condizioni di lavoro sono la causa principale della maggior parte degli incidenti legati al settore della moda globale, specie nel settore del lusso.
A dirlo è il rapporto della società di analisi dati RepRisk che ha suddiviso il settore in livelli fast fashion, premium e luxury, sulla base del monitoraggio dei dati, analizzando oltre 2,5 milioni di documenti pubblici provenienti da media, enti no-profit, agenzie governative e altre organizzazioni.
Negli ultimi cinque anni, la maggior parte degli incidenti a rischio sociale nelle catene di fornitura del settore della moda è stata collegata a cattive condizioni di lavoro, lavoro forzato e violazioni dei diritti umani con la complicità delle aziende. Complessivamente, questi tre problemi rappresentano circa il 35% di tutti gli incidenti documentati nei tre livelli dei marchi di moda.
Nel livello luxury, il 17% degli incidenti riguarda “lavoro forzato” e “violazioni dei diritti umani e complicità aziendale“, ed è la percentuale più alta tra i tre livelli.
Le problematiche legate al lavoro, come il trattamento inadeguato dei lavoratori e gli orari di lavoro eccessivi nelle fabbriche, sono significative nel livello fast fashion, rappresentando il 46% di tutti i casi segnalati. Spiccano anche i casi relativi a problemi ambientali e sanitari, che rappresentano un ulteriore 13% delle segnalazioni totali. Nel segmento del lusso, al contrario, questi problemi si sono verificati solo all’1%.

RepRisk ha esaminato due parametri per valutare la distribuzione geografica degli incidenti a rischio ESG (ovvero ambientale, social e di governance) secondo i quali le aziende con sede negli Stati Uniti sono emerse le più esposte. Secondo il primo parametro, che rileva le sedi degli incidenti a rischio ESG, gli Stati Uniti sono in testa con 2.429 casi. La Cina segue con 2.203.
Inoltre, utilizzando il secondo parametro, che monitora gli incidenti a rischio ESG legati alle catene di fornitura globali delle aziende, le aziende con sede negli Stati Uniti sono in testa con 5.168 incidenti. La Germania è al secondo posto con 2.079 incidenti.
Tuttavia, il rapporto osserva che l’esposizione al rischio ESG varia a seconda del problema e della regione. Ad esempio, le aziende europee hanno una probabilità più che doppia di essere collegate a incidenti sul lavoro in Asia rispetto all’Europa. Questa distribuzione disomogenea evidenzia il ruolo cruciale dell’Asia nella catena di approvvigionamento globale della moda e la sua elevata esposizione a rischi sociali e di condotta aziendale. Poiché le catene di approvvigionamento della moda si estendono su più continenti, sono altamente vulnerabili a una serie di rischi ESG.

I brand di lusso sotto inchiesta per sfruttamento del lavoro
Alviero Martini, Armani Operations, Manufactures Dior, Valentino Bags Lab e, tra le ultime, Loro Piana, sono aziende di alta moda finite nel mirino dei Carabinieri del nucleo ispettorato per il lavoro per mancata prevenzione contro il caporalato.
Loro Piana è un’azienda italiana operante nel settore dei beni di lusso, principale azienda artigianale al mondo nella lavorazione del cashmere, della vigogna e della lane extrafini, acquistata nel dicembre 2013 da LVMH. L’accusa è quella di aver instaurato “stabili rapporti di lavoro con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori” e agevolato “colposamente” il caporalato cinese lungo la filiera della lavorazione del cashmere in Italia.
“Tutta l’industria si è spostata su altri lidi, ha cominiciato a produrre al di fuori della nostra struttura che, in un certo senso, proteggeva sia risorse che lavoratori. Quando il lusso si è accorto di che cosa era possibile, ha sfruttato la possibilità, sono stati i primi ad andare anche loro in nuovi territori a sfruttare risorse e lavoratori per proporci un prodotto appena meno caro del lusso, ma con dei margini sconfinati. Questo è il lusso che conosciamo oggi: margini sconfinati per un prodotto scadente. – spiega a TeleAmbiente la stilista e co-fondatrice di fashion Revolution, Orsola de Castro – Il mondo della moda è diventato un business che non guarda in faccia a nessuno, un business che non guarda le mani di nessuno, non guarda chi lo fa e chi lo compra”. E aggiunge: “Dopo aver detto questo veramente per decenni, lo sto vedendo salire a galla in questi ultimi giorni. Ma anche mesi fa, quando determinati fashion brands sono stati scoperti che producevano in sweatshop cinesi nel Nord d’Italia. E adesso stiamo vedendo la vendetta degli operatori in Cina, che ci stanno raccontando la storia cosi com’è. Noi lo sappiamo, lo abbiamo sempre saputo. Evviva che si sia scoperto“.
Questo dimostra che, a finire sotto indagine non sono, quindi, solo i colossi del fast fashion come Shein, con operai che cuciono vestiti anche per più di dodici ore al giorno, per sei o sette giorni a settimana, e solo un giorno libero al mese, ma anche i brand di alta moda seguono un modello non poi così distante da quello dei marchi low cost.