Tanta paura, ma nessuna conseguenza per una forte scossa avvenuta a circa 40 km da Atene. In Afghanistan, invece, ci sono ancora centinaia di villaggi completamente isolati a oltre una settimana dal terremoto di magnitudo 6.
Tanta paura in Grecia, ma fortunatamente senza danni a cose o persone, dopo che una forte scossa di terremoto, di magnitudo stimata compresa tra 5.1 e 5.5, è avvenuta nella notte tra lunedì 8 e martedì 9 settembre. Il sisma è stato registrato a circa 40 chilometri a Nord-Est di Atene, ed è stato avvertito distintamente sia dai cittadini della capitale che da quelli di tutte le zone limitrofe. Al di là dell’incertezza sull’effettiva magnitudo della scossa, che viene stimata in modo differente dai vari enti sismologici nazionali e internazionali, le immagini che arrivano dalla Grecia testimoniano come il terremoto, avvenuto a 14 km di profondità e con un epicentro nei pressi di Nea Styra, sia stato molto potente.
La scossa è avvenuta poco prima di mezzanotte e mezzo di martedì 9 settembre ora locale (le 23.27 dell’8 settembre in Italia) e ha sorpreso davvero tutti per la potenza, compreso il ct della nazionale greca di calcio, il serbo Ivan Jovanovic, che dopo una partita stava rispondendo alle domande dei giornalisti in conferenza stampa. Nonostante la magnitudo non trascurabile del terremoto, fortunatamente non risultano danni agli edifici né feriti nelle zone più vicine all’epicentro. L’epicentro del sisma è stato localizzato proprio sulla costa sud-orientale della penisola greca, ma sulla terraferma, e anche per questo è stata subito scongiurata l’allerta tsunami. Dopo il terremoto principale, nelle ore successive si sono susseguite alcune scosse di assestamento, di intensità decisamente più moderata.
Se la Grecia ha vissuto solo alcuni momenti di paura e ora può tirare un sospiro di sollievo, la situazione è sempre più tragica in Afghanistan. L’Est del Paese, colpito il 31 agosto scorso da una scossa di magnitudo 6 e da diverse repliche, anche di intensità simile a quella principale, resta letteralmente in ginocchio. Difficile al momento stabilire il numero di morti e feriti, anche se le vittime, stando all’ultimo dato ufficiale, sono oltre 2.200. Il bilancio, però, potrebbe essere nettamente peggiore se si considera che diversi villaggi, a oltre una settimana di distanza, restano ancora completamente isolati e irraggiungibili da una macchina dei soccorsi che si sta muovendo troppo lentamente per una lunga serie di motivi.
Il primo, ovviamente, è l’inaccessibilità a diversi villaggi di montagna, troppo remoti e isolati dai danni causati dal terremoto e da una precedente alluvione alle poche vie di accesso. Non va però dimenticato che il coordinamento dei soccorsi a livello internazionale deve fare i conti con le restrizioni e con l’ostruzionismo del regime talebano. Secondo le stime dell’Onu, che però fa sapere di non essere ancora in grado di raggiungere né di mettersi in contatto con centinaia di piccoli villaggi, oltre 5.000 case sono andate completamente distrutte e l’emergenza coinvolge almeno mezzo milione di persone. Le Nazioni Unite hanno lanciato un appello alla comunità internazionale, affinché possa partire l’ambizioso piano di aiuti dal valore di quasi 140 milioni di dollari.
Intanto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha inviato nuove scorte mediche, con 35 tonnellate di materiale vario che è arrivato a Kabul. Dalla capitale fino alle zone colpite, tuttavia, il viaggio sarà lungo e impervio, come dimostrano anche le difficoltà incontrate dalla macchina dei soccorsi nell’ultima settimana. In tutto questo, c’è un ulteriore dramma nel dramma: quello delle donne, che quattro anni dopo il ritorno dei talebani al potere subiscono le conseguenze delle leggi discriminatorie del regime. Conseguenze che si riflettono in una maggiore difficoltà nell’accedere alle cure, considerando la totalità di presenze maschili tra soccorritori e medici e, secondo le norme dei talebani, le donne non possono venire a contatto, neanche per ragioni di salute, con uomini che non siano loro parenti stretti.