La maison del lusso controllata dal gruppo francese LVMH, Loro Piana, non avrebbe controllato la filiera produttiva, alimentando un sistema colposo di sfruttamento. Un altro caso di caporalato nel mondo dell'alta moda. 

Nuovo caso di sfruttamento nella moda: sotto inchiesta l’azienda italiana Loro Piana

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La maison del lusso controllata dal gruppo francese LVMH, Loro Piana, non avrebbe controllato la filiera produttiva, alimentando un sistema colposo di sfruttamento. Un altro caso di caporalato nel mondo dell’alta moda. 

Una giacca in cashmere venduta fino a 3mila euro in negozio ma pagata appena 100 euro e capi prodotti in opifici cinesi con gravi carenze sotto il profilo dei diritti dei lavoratori. Anche l’azienda di abbigliamento Loro Piana, brand vercellese del lusso controllato dalla multinazionale francese della moda LVMH, sarà messa in amministrazione giudiziaria per un’indagine sullo sfruttamento dei lavoratori.

Loro Piana è un’azienda italiana operante nel settore dei beni di lusso, principale azienda artigianale al mondo nella lavorazione del cashmere, della vigogna e della lane extrafini, acquistata nel dicembre 2013 da LVMH.

L’inchiesta su Loro Piana parte dalla denuncia di un lavoratore che ha affermato di essere stato picchiato dal suo datore di lavoro cinese per aver chiesto il pagamento di stipendi arretrati. Non è però la prima casa di alta moda finita nel mirino dei Carabinieri del nucleo ispettorato per il lavoro per mancata prevenzione contro il caporalato. Tra le altre, infatti, anche Alviero Martini, Armani Operations, Manufactures Dior e Valentino Bags Lab.

L’accusa per Loro Piana è quella di aver instaurato “stabili rapporti di lavoro con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori” e agevolato “colposamente” il caporalato cinese lungo la filiera della lavorazione del cashmere in Italia. Il provvedimento verso l’azienda italiana rientra in un’indagine più ampia coordinata dalla procura di Milano, che intende verificare le condizioni di lavoro nelle filiere di abbigliamento dei grandi marchi che, nella stragrande maggioranza, si affidano a società esterne per le varie fasi della produzione.

La società si è dichiarata disposta a collaborare con la magistratura e ha fatto sapere di essere stata tenuta all’oscuro dell’esistenza dei sub-fornitori fino al 20 maggio 2025, quando è stata messa al corrente della situazione e ha interrotto i rapporti col fornitore al centro dell’inchiesta sullo sfruttamento di manodopera. Per quanto riguarda i costi dei capi che venivano rivenduti a cifre fino a 3mila euro, ma che secondo le indagini avevano un costo di circa 100 euro, secondo Loro Piana le cifre “non sono rappresentative degli importi corrisposti da Loro Piana al fornitore, né riflettono il valore del processo produttivo e delle materie prime”.

A finire sotto indagine non sono, quindi, solo i colossi del fast fashion come Shein, con operai che cuciono vestiti anche per più di dodici ore al giorno, per sei o sette giorni a settimana, e solo un giorno libero al mese. Anche i brand di alta moda seguono un modello non poi così distante da quello dei marchi low cost.

“Pratiche poco etiche”. L’inchiesta di Bloomberg su Loro Piana

Negli ultimi anni Loro Piana era stata anche al centro di un’inchiesta giornalistica di Bloomberg che aveva raccontato le pratiche poco etiche dietro il reperimento dei suoi filati più pregiati in Perù. Secondo il giornale l’azienda sfrutterebbe lavoratori peruviani e la cattività della vigogna delle Ande, animale selvatico simile all’alpaca ma con un mantello più morbido e pregiato.

Per realizzare i capi in lana di vigogna, l’azienda si rifornisce dal 1994 a Lucanas, nota comunità andina per la tosatura di questi animali, la prima ad aver ricevuto l’autorizzazione dal governo peruviano per farlo legalmente. Per la quantità di lana di vigogna necessaria a Loro Piana per produrre un maglione venduto a 9mila dollari, la comunità indigena peruviana che tosa gli animali ricevono solo 280 dollari.

“Il mondo della moda, un business che non guarda in faccia a nessuno”, Orsola de Castro

Una borsa Hermès, Louis Vuitton o Prada può arrivare a costare anche centinaia di migliaia di euro. Questo prezzo che viene “giustificato” per la qualità dei materiali impiegati e per la lavorazione artigianale che c’è dietro. Qualche mese fa divennero virali su TikTok dei video di creatori cinesi che si dichiarano produttori OEM (Original Equipment Manufacturer), ovvero fornitori di articoli originali, e che sostengono di essere loro i veri artefici delle borse di lusso. Nei video si vedono borse, scarpe e capi d’abbigliamento visivamente identici a quelli dei marchi di fascia alta, ma venduti direttamente da fornitori cinesi a una frazione del prezzo. Il più noto tra questi è un utente chiamato Wang Seng, che in un video con oltre sei milioni di visualizzazioni ha affermato: “Più del 90% del prezzo è per il logo ma se non ti interessa il logo e vuoi la stessa qualità, lo stesso materiale, puoi semplicemente comprarlo da noi”.

Tutta l’industria si è spostata su altri lidi, ha cominiciato a produrre al di fuori della nostra struttura che, in un certo senso, proteggeva sia risorse che lavoratori. Quando il lusso si è accorto di che cosa era possibile, ha sfruttato la possibilità, sono stati i primi ad andare anche loro in nuovi territori a sfruttare risorse e lavoratori per proporci un prodotto appena meno caro del lusso, ma con dei margini sconfinati. Questo è il lusso che conosciamo oggi: margini sconfinati per un prodotto scadente. – ha dichiarato a TeleAmbiente Orsola de Castro, stilista e tra le fondatrici di Fashion Revolution – Il mondo della moda è diventato un business che non guarda in faccia a nessuno, un business che non guarda le mani di nessuno, non guarda chi lo fa e chi lo compra”. 

 

Le aziende (non solo di fast fashion) distruggono gli abiti invenduti. Il Magazine di TeleAmbiente

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