Si teme l’ennesima fumata nera per il testo base sul fine vita atteso per il 17 luglio al Senato. Il testo era stato annunciato dal governo di Giorgia Meloni ma le divisioni al suo interno sembrano avere già arenato il percorso di una legge che mira a stabilire i criteri entro i quali depenalizzare il suicidio assistito.
Il governo è spinto a legiferare dalla necessità di regolamentare la possibilità di ricorrere al suicidio assistito, di fatto introdotta nel nostro paese dalla Corte costituzionale che da sei anni sottolinea la mancanza di una legge sul tema dell’eutanasia. Dopo la pronuncia sul caso Dj Fabo, la Suprema Corte ha in diverse occasioni invitato il legislatore a colmare il buco normativo, fino ad arrivare a fissare i principi che il testo deve contenere, senza però trovare finora ascolto.
Le divisioni
Il mondo cattolico è diviso sul tema, se la Cei appare favorevole a all’approvazione di un testo che apra in minima parte alla possibilità di consentire il fine vita, puntando con forza sulle cure palliative, descrivendo di fatto la realtà creatasi in Italia grazie ai pronunciamenti della Corte costituzionale, gli ultraconservatori di ProVita si oppongono a qualsiasi testo sul tema. Le divisioni riguardano anche il coinvolgimento del Sevizio sanitario nazionale nel suicidio assistito, coinvolgimento che FdI vorrebbe evitare.
Il testo a cui sta lavorando il governo punta sulle cure palliative e si limita a mettere nero su bianco i principi fissati dalla Corte nella sua ultima pronuncia. Dovrebbe essere introdotto un Comitato etico nazionale, intitolato decidere su ogni caso specifico, il Comitato dovrebbe essere nominato tramite Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm).
La situazione attuale
Il tema del fine vita nel nostro Paese non è regolato da nessuna legge nazionale, per questo motivo la Corte Costituzionale si è dovuta pronunciare più volte sui casi concreti di persone processate per avere aiutato pazienti malati a ottenere l’eutanasia in Svizzera, Paese in cui questa pratica è legale. Il processo italiano più noto è quello contro Marco Cappato.
In Italia il primo grande caso che ha portato il tema all’attenzione dell’opinione pubblica è stato quello di Eluana Englaro, la donna era rimasta in stato vegetativo per 17 anni prima che i genitori ottenessero il permesso di staccare le apparecchiature che la tenevano in vita con nutrizione artificiale. Era il 2009.
Nel 2019 la Corte Costituzionale aveva esortato il parlamento italiano a legiferare sul tema del fine vita per colmare il vuoto legislativo creatosi. La Corte è intervenuta dopo che la Corte d’Assise di Milano aveva interpellato la Consulta sulla legittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio. La procura di Milano aveva accusato Marco Cappato, esponente dell’associazione Luca Coscioni, di questo reato poiché questo si era autodenunciato per avere dato aiuto al suicidio nei confronti di Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, ragazzo rimasto cieco e tetraplegico dopo un incidete automobilistico che aveva chiesto aiuto per poter morire di suicidio assistito in Svizzera, cosa che avvenne nel 2017.
I requisiti stabiliti dalla Consulta
La Corte Costituzionale ha stabilito che i malti terminali possono chiedere il suicidio assistito qualora ricorrano alcuni requisiti: che abbiano una diagnosi che non lascia spazio alla speranza, che siano tenuti in vita da supporti medici, che siano soggetti a gravi sofferenze e che abbiano preso la decisione in piena libertà. A questi requisiti il governo vorrebbe aggiungerne un quinto, quello di essere passati prima per un percorso di cure palliative.
Grazie alla sentenza della Consulta sul caso Cappato/Antoniani, 242/2019, sei persone in Italia hanno finora ottenuto il permesso al suicidio medicalmente assistito. L’ultima è stata una donna, in Lombardia, affetta da sclerosi multipla progressiva ad ottenere l’accesso a un farmaco fornito dal Servizio Sanitario nazionale.